"Da queste riflessioni [delle donne] emergono due fatti solo apparentemente contraddittori: la maschilità del linguaggio e l'esistenza di 'un parlare da donne' differenziato da quello degli uomini. Accenno solo per inciso al primo punto. Il linguaggio è al maschile. La lingua, anche quella parlata dalle donne, è maschile. Le costruzioni grammaticali e semantiche sono asimmetriche: per alcuni termini il femminile non esiste, ad esempio per i nomi di professioni; per altre, il femminile assume connotazioni peggiorative, dispregiative, ironiche, tanto che il linguaggio riferito alle donne è stato definito da Marina Yaguello 'lingua del disprezzo'. Termini maschili vengono usati per il tutto, il plurale indicativo di collettività di uomini e di donne è al maschile, 'uomo' indica appartenente al genere umano. Il generico, l'ipotetico, l'esempio è al maschile. L'aggettivo e il sostantivo femminile 'si formano', secondo Robin Lakoff, su un maschile 'che esiste'.
Ma la questione va molto al di là del rilievo delle caratteristiche grammaticali del linguaggio. La donna, si dice, non parla, 'è parlata'. Oggetto del discorso dell'uomo, 'sesso oggettivato a segno culturale', 'parola delle parole', 'segno o simbolo della comunicazione tra gli uomini, contesto fonte di tutte le parole', la donna, oggetto di divieto della parola nei secoli, è 'segno significante che pone la possibilità di un linguaggio comune attraverso un valore che è identico, e, dunque, comprensibile a tutti.' Nel linguaggio, come nella sessualità, la donna viene definita e costruita in riferimento alla 'legge del medesimo' - dice Irigaray in Speculum, alla logica di un'unica identità (maschile), metro di misurazione da cui la differenza-donna rappresenta solo uno scarto relativo."
Marina Mizzau: Eco e Narciso
Bollati Boringhieri, Torino -1988
pag. 53
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